ANEDDOTI E VITA VISSUTA NEL PALAZZUOLESE

Giuliana Morara da Campanara racconta...

Ho incontrato l’altro giorno Giuliana, palazzuolese doc, anzi campanarina doc, infatti da giovane abitava nella canonica della chiesa di Campanara. A proposito di questa canonica, mi diceva che, allora, negli anni della sua gioventù, quando nevicava, e di neve ne veniva in abbondanza, questa si cumulava davanti alla facciata esposta al vento e talvolta la neve, per effetto della bufera, e talvolta arrivava fino al tetto, tanto che per uscire erano costretti a passare dalla porta che dava sul dietro. Mi ha raccontato tante belle cose di questi posti. Fra questi racconti o aneddoti c’è quello di Tonio, contadino, il quale era molto povero ed aveva molti figli. Purtroppo egli aveva un podere altrettanto “povero”, mentre il suo confinante che abitava un po’ più in alto “ed sura” (come dicono a Palazzuolo) aveva una bella vigna che produceva buona e abbondante uva. Questo povero Tonio diceva spesso dentro di sé: “Guarda quanta bella uva ha il mio vicino, che potrei dare da mangiare ai miei figli e invece....”. Un bel giorno, l’uva era matura ed abbondante (ed assai invitante) decise di prendere la “carriola” con l’intenzione di andare a prendere un po’ di quell’uva.  Strada facendo, dal basso dove abitava lui, c’era una bella salita e la carriola cigolava e sembrava che dicesse: sit vi, sit vi, sit vi ( che in palazzuolese significa: se ti vede, se ti vede). Quando arriva lassù, carica la carriola d’uva e decide di scendere. Nel frattempo, però, arriva il padrone della vigna che gli da una bella strapazzata: “Come hai potuto fare questo Tonio?, ecc ecc: “ Tonio, con la faccia rossa di vergogna e demoralizzato,  riprende la sua carriola vuota e ridiscende. Durante la discesa la carriola, cigolando, sembrava che dicesse: At leva det, at leva det (in dialetto significa: Te l’avevo detto, te l’avevo detto). Questo per dire che, certe volte, le carriole sono più intelligenti delle persone. Un altro aneddoto: Beppone era un uomo con molti figli e molta miseria, però sapeva leggere e scrivere, che per quei tempi non era poco. Un giorno fu invitato a Roma per firmare alcune carte. Pensava che in un giorno se la sarebbe cavata, invece la cosa andò per le lunghe; perciò decise  di farsi radere la barba. Il nostro Beppone aveva una barbaccia a cespugli neri e grigi e assomigliava veramente a un orso. Si sedette sulla poltroncina e si lasciò “sbarbirire”. Dopo più di mezz’ora di torture il barbiere gli chiese se era rimasto soddisfatto. “Altro ché, rispose Beppone, guardi che lei è una persona straordinaria, speciale, addirittura più bravo di Gesù Cristo”. Il barbiere lo guardò a bocca aperta e gli chiese:  perche? “Perché, rispose Beppone, Gesù Cristo fa vedere le stelle soltanto di notte, invece lei le fa vedere anche di giorno”. Se ne tornò a casa sua tutto stizzito e a Roma non tornò più. Quando Giuliana comincia a raccontare è come un torrente in piena, sentite questo aneddoto che si riferisce al “Maggio”. Tutti i giovani della zona si ritiravano in parrocchia e da lì partivano tutti baldanzosi e allegri. Facevano il giro di ogni casa e cantavano stornelli. Se c’erano delle belle ragazze, cantavano d’amore e d’allegria, se invece trovavano tagazze bruttacchiole o vecchietti cantavano di morti e di Purgatorio. Stavano fuori tutta la notte e al mattino si ritrovavano di nuovo in parrocchia per la Messa. Ma scciome eran quasi tutti ubriachi, la messa l’”ascoltavano” dormendo sdraiati sulle panche. Qualcuno, tornando a casa, trovava la moglie dietro la porta, col matterello, e gli cantava così: Ragnolèn da la palota e la tura de casòn e’ s’ardupieva dré la matra per la pora de baston. In dialetto significa: Ragnetto dalla pallotta (sono quei ragni con la pancia a pallottina che si nascondono nelle madie e si cibano di farina)  e del coperchio della madia, si nascondeva dietro la madia per paura del bastone. Ancora è Giuliana che racconta. “Dalle nostre parti si era inventato il telefono “viva voce”. Consisteva nel parlare anche da molto lontano, cantando. Il primo (interlocutore) incominciava con questo sistema  che si chiamava “La Dolèna” (cantilena): Dolitti dolae o Roberta venne a quae, lerò leriero, tolerì, lerò. L’altra persona rispondeva: Dolitti dolie mè a là an poss evnie, lerò leriero, tolerì lerò (Trad.: Dolitti, dolae o Roberta vieni qui, lerò leriero tolerì lerò. Dolitti dolie, io là non posso venire, lerò leriero, tolerì lerò). Andavano avanti per ore e si dicevano tutto in musica. Magari non si erano mai visti, ma con questo sistema sono nate delle storie. Il tempo della mietitura era il tempo felice, e per quello che mi ricordo,  cantavano tutti questa canzone:

Il 29 luglio quando il sol matura il grano, trullallà e rataplan

è nata una bambina con una rosa in mano

non era paesana e nemmeno cittadina, trullallà e rataplan

è nata in un boschetto vicino alla marina

vicino alla marina dove è assai più bello stare, tullallà e rataplan

si vedon bastimenti a navigar sul mare.

Per navigar sul mare ci voglion le barchette, trullallà e rataplan

per far l’amor di sera ci voglion ragazzette, ecc, ecc.”

“Adesso, aggiunge Giuliana, quelle campagne sono vuote e, secondo me, desolate. Qualche tempo fa mi sono recata nella zona dove io ho vissuto i primi 15 anni della mia gioventù, e ti dirò che mi si è stretto il cuore perché non ho trovato nemmeno un uccellino (forse perché non c’è più cibo). Quelle persone che abitavano lassù, adesso hanno una bella casa con le mura di cemento. Hanno tutte le comodità : il televisore, il telefono e quant’altro, però, molti hanno la nostalgia del profumo dell’erba appena tagliata, del pane appena sfornato, del gallo che cantava all’alba (ed era l’orologio più preciso del mondo). I grilli che cantavano nei campi di trifoglio, le lucciole che illuminavano il grano maturo, la mietitura, la trebbiatura e i balli sull’aia. Il tintinnìo dei campani delle nostre bestie quando, all’imbrunire, rientravano dal pascolo”. Tutte queste cose, dice Giuliana, non ci sono più però molti  dicono sovente: ie se steva mei quand e se steva pezz! Vale a dire: “Si stava meglio quando si stava peggio”. Questa gente di montagna è tutta così estrosa, poiché è gente che ha vissuto – come diceva Giuliana – a contatto con la natura, la quale ha “formato” il loro carattere, la loro voglia di vivere, la loro estrosità poetica. Insomma, questa gente (non me ne vogliano i cittadini) aveva, come si usa dire oggi “una marcia in più”.

Paolo Campidori
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