...E LA SERA AL BAR A  SENTIRE RACCONTAR BALLE!

Certo la nostra gioventù o meglio la nostra fanciullezza e adolescenza è stata molto spensierata, molto divertente. Gli unici doveri, se così li possiamo chiamare, erano la scuola e, personalmente, quello di annaffiare un po’ le zucchine, i fagiolini e altre piantine dell’orto, compito però inderogabile che dovevo espletare prima che giungesse il babbo dal lavoro. Tutto il resto del tempo lo passavamo a giro per i campi, spesse volte con un pallone in mano, altre volte con una fionda, che noi chiamavamo archetto, il cui proiettile era un semplice sassolino. Altre volte trascorrevamo il tempo costruendo dei carrettini con i cuscinetti che il meccanico, nostro amico, ci forniva per una cifra molto modesta. Si trattava di cuscinetti vecchi che il meccanico aveva sostituito ai motorini e che noi impiegavamo per farne delle ruote, un po’ rumorose se si vuole, ma sempre ruote. Spesso, sia con il carretto a 4 ruote che con quello a due partivamo da metà “Miglio” (località fra Fontebuona e Pratolino) per poter usufruire di quella bella discesa, nella quale il nostro carretto scendeva a una velocità, per noi allora, vertiginosa. Ma siccome, si sa, questi telai fatti da noi con delle assi, fatti con tanta cura quanto si vuole, non potevano essere i telai della Ferrari, e allora spesse volte, il carretto, proprio sul più bello, si sfasciava e noi tornavamo a casa con le ginocchia e i gomiti sbucciati, quando andava bene. Altre volte girovagavamo per i campi, spesso con un  pallone di cuoio, accuratamente spalmato di sugna,  sotto il braccio per cercare un angolino dove poter giocare. Ma siccome allora, tutti i campi erano arati e coltivati, era difficile trovarlo. Spesse volte, anzi il più delle volte. andavamo scalzi e tanta era l’abitudine di camminare in questo modo, che i nostri piedi si erano abituati ai sassi e alle asperità del terreno che non li sentivamo più. Spesse volte, in mancanza di un bel praticello con l’erba, andavamo a giocare a pallone proprio nei campi dove avevano tagliato il grano e vi erano rimasti quegli “spunzoni” come li chiamavano noi, ma dopo cinque minuti che vi avevamo corso sopra i nostri piedi scalzi non li sentivano più. Altre volte andavamo nei Campini, a Vigna Vecchia a “raccapezzare” un po’ di uva fresca, direttamente dalla pianta. Mi ricordo che le vigne che privilegiavamo, il più sovente, erano quelle di proprietà della canonica, di cui mio zio era sacerdote. Ma spesso era il fiume, la Carza, che accoglieva i  nostri giochi, i nostri passatempi. Il bagno era un “obbligo”, visto anche il caldo che faceva, e una volta finito, mettevamo ad asciugare al sole le mutandine per non farsi accorgere dalla mamma, la quale poi l’avrebbe raccontato al babbo, la sera al ritorno dal lavoro. Fontebuona, per noi ragazzi, era tutto, era un microcosmo, un universo in miniatura, conoscevamo solo quello. I nostri confini erano Vaglia e Pratolino, oltre quelli non sapevamo quale mondo esistesse. La sera, poi, una volta cenato, il divertimento non terminava. Andavamo al bar, l’unico in paese, dove ci ritrovavamo tutti, piccoli e grandi. E quello era davvero uno spasso a sentire raccontare frottole: una più grossa dell’altra. Gli argomenti  che le persone adulte tiravano fuori, erano più o meno gli stessi: la caccia (in paese erano quasi tutti cacciatori), lo sport, il ciclismo, in particolar modo: Bartali e Coppi, raramente si parlava di calcio. Ma la caccia, ripeto era l’argomento “principe”. Li sentivi parlare con accanimento di coppiole, di “spadellamenti”, del cane che aveva “scagnato” la lepre, ma che il fucile aveva fatto “cilecca”, insomma ognuno decantava la sua bravura di cacciatore e ognuno di loro raccontava di aver “morto” animali sempre più grandi. Ce n’era uno che raccontava delle “balle” talmente grosse, che faceva perfino ridere noi ragazzi, che, pur non essendo smaliziati come i grandi, tuttavia riuscivamo a intuire fino a dove arrivava la realtà e dove iniziava la fantasia. Questo Tizio era un contadino, che per raccontare queste balle, si metteva in mezzo della stanza, un po’ ricurvo, con le braccia penzoloni, con il berretto, tutto macchiato di “verde rame”, la sostanza che i contadini davano alle viti contro i parassiti. Tra un bicchiere e l’altro questo diceva: “L’altro giorno ho visto un leprone così (e con le braccia indicava un’apertura di un metro, un metro e mezzo), sarà stato di 25-30 chili”. Avendo intuito la balla, gli chiedevano come aveva fatto a ucciderlo. Lui diceva, che prima caricava il fucile con una cartuccia a formentone e poi quando il leprone si era fermato a mangiare, con un’altra cartuccia caricata ben bene l’aveva ammazzato”. Ma di questi tipi strani e buffi al bar ce n’erano in abbondanza. Masino, altro contadino, che possedeva una forza da gigante, amava talmente il vino, che lo tracannava tutto di un sorso. E un calice tira l’altro, quando aveva fatto il pieno, cominciava a raccontare di quando, da militare, era salito sulla “motopiana”, come chiamava lui, del suo capitano e non sapendola guidare, non riusciva più a fermarla. Allora, agli inviti del capitano che gli intimavano di fermarsi, lui replicava: “Un altro giro signor tenente”. Finché la moto andò a urtare un pagliaio, finendo la corsa in maniera piuttosto tragica. E poi raccontava le “gesta” di quando era in guerra, molto probabilmente racconti di fantasia, nei quali Masino diceva di aver affrontato le mitragliatrici nemiche, e nel racconto si immedesimava così tanto che cominciava a imitare il “Ta-ra-ta-ta”, delle mitragliatici stesse, che sembrava davvero essere lì. E a quel punto il Capitano, raccontava Masino, gli diceva: “Forza ragazzi, a corponi come le serpi”. Tutti ridevano, e Masino ci provava piacere, perché sapeva che a quel punto gli avrebbero offerto altri calici di buon vino, che lui avrebbe tracannato tutti di un sorso. Ma i racconti erano veramente i più disparati e i più impossibili. C’era chi raccontava di aver visto il Regolo, un animale fantastico, a forma di serpente, ma con gli orecchi di uomo, il becco come un uccello, animale pericolosissimo che riusciva anche a incantare le prede e anche le persone. Altri avevano visto il lupo mannaro aggirarsi per i monti di Starniano, Ceppeto, Pescina. Non mancavano i racconti del curato tale o tal’altro che aveva lasciato l’ombrello nelle allora “case chiuse”; oppure del curato della tale parrocchia che ci aveva rimesso un bel gruzzoletto al gioco della “bestia”, naturalmente con le carte truccate da parte di buontemponi che erano riusciti ad aggirarlo. Così passavano le sere al bar fra le frottole, il gioco delle carte, il gioco del biliardo e la saletta contigua che ospitava uno dei primissimi televisori, ma che non funzionava quali mai. Mi ricordo l’Alviero, il barista, che quando questo non funzionava, con della stagnola, frizionava la “piattina” dell’antenna, e qualche volta questo metodo funzionava. Ma quando questo non bastava, dopo alcune volte passava alle maniere energiche, fino a rifilargli dei robusti cazzottoni nella parte laterale del televisore, allora in legno. A quei tempi, bisogna dire, che la gente si divertiva con poco, però con quel poco si divertiva davvero, al contrario di oggi, che la gente non si diverte pur avendo molto.

Paolo Campidori
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