C’ero stato a Casetta di Tiara almeno una quindicina di anni fa. Mi
accompagnava Aldètt della Carlina che, in quanto sensale o mediatore che dir
si voglia, conosceva un po’ tutti da queste parti. Durante il viaggio mi
faceva fermare più volte “accostati qui con la macchina, che vado a salutare
delle persone che conosco”. Il pretesto era buono, perché oltre al fatto di
ritrovare dei vecchi amici, ci scappava anche un bicchiere di buon vinello, e,
quando di queste soste ne avevi fatte tre o quattro il buon Aldètt cominciava
a riscaldarsi e allora ti raccontava tutte quelle storie “impossibili” della
sua gioventù legata appunto a quei luoghi e a quelle persone. Ne ho sentite
tante di queste storie. Fortunatamente che lui era un burlone di natura e
quando aveva alzato un po’ il gomito si ricordava solo dei fatti capitati a
Tizio e Caio che facevano ridere e quando cominciava non finiva mai. Mi
ricordo che, proprio quando aveva sorseggiato un po’ di “mommo” questo doveva
fargli riaffiorare i ricordi alla mente. Di quella volta che andai a Casetta
con lui mi ricordo solo un paio di cose: una che mangiammo in una piccola
trattoria locale, e, siccome eravamo arrivati senza un preavviso, ci fecero
solamente dei primi, ma che primi! Mi ricordo che mangiammo i tortelli di
ricotta e verdura che erano veramente la fine del mondo. E ne mangiammo in
abbondanza e il tutto annaffiato, provate a dire, dal buon vino rosso. L’altra
cosa che ricordo di quella volta era la strada, qualcosa di raccapricciante.
Aldètt, mio zio, voleva che io tornassi indietro in quanto la strada era quasi
impossibile. Essendo io tuttavia ostinato ad andare avanti, lo zio disse :
“Fai come vuoi!” e si acquetò in un muto silenzio, guardando un po’
preoccupato a destra e a sinistra, che le ruote stessero dentro la carreggiata
che era precisa che, se avessimo messo una ruota di fuori, con gli strapiombi
che c’erano, forse ora non sarei qui a raccontare. Io, invece, mi preoccupavo
di arrivare a tutti i costi in cima a queste montagne, costasse anche.....,
non era certo la prima volta che rischiavo in questi posti. Mi ricordo, tanto
per fare un esempio, che una volta arrivai a Brento, da solo, percorrendo le
strade battute dai camion che portano la pietra, strade impossibili, con
strapiombi paurosi, che se sbagli di 10 cm ti vengono a raccogliere col
cucchiaino, qualche centinaio di metri di sotto. Mi ricordo era di sabato e mi
ero intestardito ad andare a Brentosanico, un posto, che tutt’ora mi fa venire
i brividi, e del quale si potrebbe, a ragione, dire “lassù dove osano le
aquile”. Non sapevo da dove passare per arrivarci, e per questo, mi fermai da
Botto di Firenzuola, quel personaggio storico, ora morto, che, a detta di lui
e per averlo raccontato proprio a me, in gioventù beveva anche tre fiaschi di
vino al giorno. Quando gli chiesi dove fosse la strada per arrivare a
Brentosanico, non capiva. “A Brento?” Sì, risposi. Lui mi disse: “Con la
macchina?”: Sì, risposi io. In quel preciso istante mi diede un occhiata
dall’alto in basso o viceversa e mi disse “Buona fortuna”. A distanza di tempo
poi capii il perché di quell’occhiataccia. Ma di questo parlerò un’altra
volta. Ma “revenons à nos moutons”, come dicono i francesi, torniamo al nostro
argomento: Casetta di Tiara. Ci sono voluto tornare proprio la scorsa
settimana. Ero in compagnia di Luciano, un buontempone di Monti, che anche lui
ne ha combinate delle belle. Ci siamo incontrati a Firenzuola, per caso, e in
un primo momento dovevamo andare a San Pellegrino, ribattezzata San Polverino,
per i lavori della TAV, poi, dietro mia richiesta e con il suo consenso
abbiamo deciso di andare a Casetta di Tiara. La strada per questo paese
solitario inizia traversando un ponte sul Santerno, entrando in una stretta
gola squarciata e sbriciolata dalle cave di pietra serena. La strada, dopo un
breve tratto falso-pianeggiante si inerpica improvvisa e hai l’impressione di
quando decolli con l’aereo e subito dopo prendi quota. A un certo punto trovi
una casa con una fonte che butta un getto talmente abbondante di acqua che ti
chiedi come mai questa ricchezza non venga incanalata e portata magari nei
posti dove ce n’è tanto bisogno. In questo stesso punto c’è il bivio, una
mulattiera, che in circa un’ora, un’ora e mezza di cammino conduce alla antica
abbazia di Moscheta. La strada procede stretta e con curve al limite del
possibile in mezzo a castagni e alberi di nocciolo. Da una parte e dall’altra
vedi le cave di pietra serena, e ogni tanto senti potenti boati dovuti alle
esplosioni delle mine, che ti sembra essere lì. Arriviamo sulla vetta,
immagino non ci sia un cane! Anzi, sì, un cane c’è perché lo si sente
abbaiare: ci ha già sentiti, ma non si vede anima viva in giro. Il primo
edificio che incontriamo è un bel seccatoio, un bel “secadur” come dice
Luciano, lui che parla il dialetto. Poi un cimiterino, ben tenuto. Ci fermiamo
a scattare qualche foto: il panorama è superbo. Proseguiamo verso il paesino e
arriviamo nella piccola piazzetta dove c’è la chiesa, anche questa, meraviglia
delle meraviglie, ben tenuta! Restaurata! Ci sono diverse casette, molto
antiche, anche queste ben conservate! Pensate ci sono dei posti, tipo San
Pellegrino, a esempio, con delle case così antiche che dovrebbero essere
inventariate, fotografate e possibilmente restaurate con dei fondi pubblici, e
pensate, quelle stesse case, sulla strada imolese, rischiano, per l’incuria
degli organi di tutela, di scomparire per sempre. Sono case molto antiche, in
pietra, con tetto a lastre. Una di queste apparteneva a mio zio, prima che si
ritirasse nel suo “feudo” di Monti e quindi mi è particolarmente cara. Mi
ricorda, quando da ragazzo, ci riunivamo le sere sull’aia, con le altre
famiglie della zona a “spannocchiare”, cioè a togliere le foglie dalle spighe
di formentone. Qui invece a Casetta, a 7 Km dalla strada imolese, in un posto
impervio, impossibile, tutte le casette sono in ordine, ben restaurate, c’è
perfino ancora la vecchia trattoria, che mi sembra chiusa nei giorni
lavorativi. La sensazione che hai stando quassù è unica, tutta particolare. Ti
giri intorno e vedi i più alti picchi, ora coperti di castagni, ora “lavorati”
dalle cave. Da un’altra parte, verso sud, vedi un’altra gola: la Valle
dell’Inferno. Ora capisco perché questa zona si chiama così. La valle qui si
apre appena in un orrido che ha davvero una bellezza “infernale”. Ripeto,
quassù hai una sensazione unica, quella di sentirti piccolo piccolo, quella di
sentire solo il tuo cuore che pulsa. Questo posto ti fa capire il tuo essere
infinitamente piccolo, vorresti incontrare delle persone, stare in amicizia e
fratellanza con loro. Senti la necessità assoluta della compagnia, qui senti
che i valori veri della vita non sono quelli che hai lasciato in città, ma
sono la natura che ti sovrasta e ti domina, sono le persone , che non sono
anonime, ma necessariamente fratelli e sorelle, perfettamente concatenate al
comune destino. Sono gli armenti, le greggi di pecore che pascolano, valori di
una vita primordiale. E primordiali sono anche certe lapidi con graffiti e
scritte arcaiche che vedi su un muro della chiesina. Finalmente si fa viva una
persona, un uomo anziano. Ci mettiamo a parlare con lui. Luciano e lui hanno
dei conoscenti in comune. Arriva la fiducia e spuntano varie testoline dalle
finestrine delle case, prima una, poi due, tre quattro. “O, ma questo paese è
popolato” esclamo io! Luciano fa segno di sì. Adesso ci sentiamo meno soli. Le
donne, sono attente a quello che diciamo e quasi quasi vorrebbero fare una
chiacchieratina con noi. Ma, il tempo è tiranno, e quassù, nonostante il sole
pomeridiano, tira una brezzolina niente male. Decidiamo quindi di ripartire.
Quasi a salutare la nostra partenza si sente un boato assordante dello scoppio
di una carica sulle cave che ci circondano. Lasciamo questi bei ricordi,
scendendo dolcemente la strada fra noccioli e castagni che ci condurrà a
Firenzuola: “il bel paese che il Santerno bagna e parla tosco in terra di
Romagna”.
Paolo Campidori
(Copyright P. Campidori)