IL MUSEO DI LEPRI FALERIO IN ARTE LEPRINO 

Proliferazione, inflazione di musei della civiltà contadina in Mugello e Alto Mugello ne conosco almeno tre (se vogliamo escludere quello di Bruscoli), uno a Casa d’Erci presso Luco di Mugello, esattamente a Grezzano, quello di Leprino a Sant’Agata e l’altro a Palazzuolo sul Senio in Alto Mugello. Voglia di ritorno alle origini? Un semplice tuffo nel passato per far affiorare i ricordi? O nostalgia di una società e di un tipo di vita che non esiste più? In questo punto il Signor Lepri Falerio, in arte Leprino, precisa: “Non ci facciamo illusioni, la vita a quell’epoca era dura non era quindi idilliaca come può sembrare guardando questo piccolo mondo in miniatura”. Tuttavia non si tratta di giocattolini, su questo punto Leprino (da ora lo chiamerò così con questo suo nomigliolo simpatico, come fanno tutti) è categorico e ha ragione. Altro che giocattolini! Si tratta di una vera e propria ricerca storica sul paese di Santagata e della vita che si conduceva tempo fa e sulla vita dei contadini, prima che disertassero in massa le nostre campagne. Per la sua realizzazione c’è voluto quel tanto di estro o quel pizzico di arte innata doti delle quali sono dotate molte persone mugellane. La tradizione ricorda Giotto, pastore in Mugello, che, fanciullo, disegnava le sue pecorine su un sasso come un bravo artista, e faceva l’O di Giotto, cioè disegnava un cerchio a mano libera meglio che con un compasso, tanto da diventare migliore del suo maestro Cimabue, sempre mugellano. Insomma artisti si diventa, ma soprattutto si nasce. Ma chi ha insegnato a Leprino la meccanica per movimentare quei personaggi? “Nessuno – mi risponde – Durante la notte mi veniva in mente un’idea e io mi alzavo da letto per fare i disegni o abbozzare un primo progetto”. E l’arte della modellazione? Anche questa non gliel’ha insegnata nessuno.Ha realizzato i volti dei personaggi in cartapesta, frugando nei propri ricordi, andando a rivedere qualche fotografia ingiallita dal tempo, ricordandosi dei personaggi, tutti in carne e ossa, non immaginari, paesani e extra-paesani. Ma come è saltato fuori il nomignolo di Leprino? Sentiamolo dal suo racconto: “Mio padre aveva un amico a Firenzuola che si chiamava appunto Leprino. A questi, per via dell’amicizia, fece una promessa che se gli fosse nato un figlio maschio, l’avrebbe chiamato come lui” (In fondo da Lepri, suo cognome, a Leprino, non c’era molta differenza). Nacque, in effetti, un bimbo maschio, e portatolo al Fonte Battesimale, il padre di Leprino intendeva mantenere la promessa fatta all’amico. Ma il prete non era di questo avviso: quel nome si addiceva più a una bestia che a un cristiano. “Ma allora, replicò il padre del bimbo, anche Papa Leone ha un nome di bestia”. Evidentemente, nel Cinquecento, il diritto canonico era un pò più flessibile su questo argomento. Sta di fatto che al bimbo fu messo nome Faliero. Ma alla gente di Sant’Agata Faliero non garba affatto e così tutti lo chiamano Leprino. Il racconto continua: “Io avevo un negozio di generi alimentari in piazza e quando ci si avvicinava alle feste natalizie, invece di mettere in vetrina l’albero di Natale, come facevano altri, o una sfilata di panettoni, panforti o torroni, io mettevo uno dei miei personaggi”. Questi personaggi in movimento nella vetrina piacevano talmente ai clienti della bottega o a coloro che passavano davanti che tutti esclamavano: “Garda che bello....ecc.” Si sa, nessuno di noi, è esente da ambizione, insomma tutti noi amiamo farci dire bravo.....ma quando ci dicono il contrario.....Siamo uomini con i nostri difetti, con le nostre passioni, le nostre ambizioni, ecc. Una volta ho sentito dire da un Cardinale famoso, naturalmente per scherzo: “Se Dio ci avesse voluto diversi, ci creava angeli”, e, se lo dice lui....Questi riconoscimenti a Leprino facevano piacere, tanto da stimolargli la fantasia e la voglia di fare. A poco a poco la sua casa, la sua bottega è diventata un piccolo laboratorio e Leprino ha cominciato a “sfornare” personaggi al posto dei filoni di pane. E’ diventato il Geppetto del paese (si fa per dire, Leprino non me ne voglia). Per il movimento dei personaggi, c’era bisogno di motorini elettrici, di ingranaggi, viti, bulloni, pulegge e allora Leprino comincia a ricercare fra le cose comuni che si gettano, perchè superate dalla tecnologia, oppure perché guaste, le ripara, le smonta e le rimonta. Anche gli amici gli portano motori di frullatori, tritacarne, insomma di tutti quegli elettrodomestici che a loro non servono più. Una volta fatti questi personaggi, intendo dire completati anche i volti in cartapesta, c’era la necessità di “vestirli” , cioè, mettere loro addosso o meglio “cucire addosso” quei vestiti nei caratteristici panni dei quali erano soliti vestirsi i nostri contadini. A questo ha pensato la moglie, a lei va un notevole merito. Molte volte si è recata presso le case dei contadini superstiti e si è fatta “regalare” qui panni che essi avevano, magari logori, nei loro cassettoni e nei loro armadi e che magari erano appartenuti agli zii, ai nonni, ecc. E, allora, tu vedi risaltare fuori come per incanto, stoffe a quadri, tipo tovaglia, con le quali i contadini ci facevano le camicie, le tele, i fustagni i velluti con i quali i contadini si confezionavano i corpetti, ecc. E poi le scarpe chiodate, gli zoccoloni con le tomaia di vacchetta, insomma tutto torna a rivivere come per incanto. Ma, non solo. “Quelli che tu vedi nella cucina – questa realizzazione risale al 1949 – sono tutti i miei parenti: mia zia, mio padre, mia nonna, ecc” Allora tu capisci che questi personaggi sono qualcosa di più di semplici macchinette in movimento. Anche l’arrotino, il magnaio, l’ombrellaio-sprangaio, ecc. corrispondono a personaggi veri, l’uno era di Scarperia, l’altro veniva dalla montagna Pistoriese, un’altro ancora veniva da San Piero a Sieve, altri ancora come gli spazzacamini venivano addirittura dall’Alto Adige. Leprino precisa: “non è che questi avessero bisogno, ma, facevano  la loro gita e tornavano a casa con qualche soldino...” Oltre ai personaggi nel museo sono rappresentate scene della vita contadina. fra queste la “battitura del grano” che si svolgeva nell’aia del podere e alla quale partecipavano un gran numero di persone. Per l’occasione e per rifocillare i battitori si ammazzava il papero e si faceva la pastasciutta a sugo di papero. E poi scene come la spremitura del vino con lo “strettoio”, la “mescita di vini” , la trattoria, il barbiere, il falegname, sarebbe troppo lungo elencarli tutti. C’è perfino la scena dei carabinieri che, uno di qua, uno di là, portano in guardina l’ubriacone che si è messo a cantare “Bandiera rossa” (un tantino “osé” per quell’epoca). Meritevoli di attenzione sono anche gli attrezzi e utensili da lavoro, fra questi citerò la roncola, il pennato, il trapano a corda, l’ascia a petto (serviva per fare le listelle dei canestri). “Sa – continua Leprino – tutto questo ben di Dio lo volevano a San Marino e mi avrebbero dato anche un sacco di soldi, ma io ho rifiutato. Ho preferito fare una donazione alle generazioni che verranno dopo di me, ai nostri figli, ai nostri nipoti i quali si ricorderanno chi erano e come vivevano i loro nonni. Per questo, ho fatto una donazione al Comune di Scarperia, con preferenza (ripetuto due volte), con preferenza Sant’Agata, il paese dove io ho vissuto da sempre. Questo significa che il paese di Sant’Agata beneficerà di questo “dono” eccezionale, e, io mi auguro che lo sappia conservare con amore. Infine il discorso cade su la trasmissione “Portobello” di Enzo Tortora, alla quale Leprino partecipò, in tempi ormai lontani. Gli ho chiesto cosa pensasse di Enzo Tortora. “Era bravo e umano”, mi risponde. Mi ha fatto piacere sentire da lui questo apprezzamento per una persona che anch’io ho stimato molto. Prima di uscire, getto un’ultima occhiata per trovare un personaggio nuovo. Ne vedo uno che mi commuove: si tratta del ciabattino, che lavora umilmente in disparte, mentre sta aggiustando una scarpa. Mi viene in mente mio padre, anche lui ciabattino a tempo pieno, prima, e a tempo perso, poi, una volta divenuto operaio in un calzaturificio. Mi sembra di vedere lui, quando io ero ragazzo, chino al suo “bischetto” (si chiamava così il tavolo da lavoro del ciabattino), che cuce, batte sulla forma, inchioda, incolla. Mio padre si chiamava Leopoldo, veniva da Firenzuola, e il mestiere lo aveva imparato in collegio a Firenze presso i Salesiani. Lui aveva preferito così, invece di fare il contadino o il prete come i suoi fratelli. Però la sua vita l’ha combattuta ugualmente, ha “tirato sù” una famiglia di quattro figli, con la moglie casalinga. Lo guardo un’ultima volta e lo saluto: “Ciao babbo”. Eh! Altri tempi quelli!

Un “ciao” anche a Leprino. Tu e il tuo museo non morirete mai.

Paolo Campidori
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