UN RAGAZZO DI CAMPAGNA-Un racconto autobiografico

Da cacciatore di lucertole alla passione per l’arte e la fotografia

Sicuramente la passione per l’arte e per tutto quanto vi gravita attorno l’ho ereditata, se così si può dire, dall’essere stato dipendente del Ministero Beni Culturali a partire dal 1965, anno in cui, terminato il servizio militare, mi si presentò l’occasione di un impiego a tempo determinato. Fui dapprima distaccato ai musei di Pitti e lì ebbi modo di vedere la ricchezze di opere d’arte che vi erano esposte o immagazzinate negli sterminati depositi del palazzo. Il Palazzo già bellissimo di suo, con le sue ampie finestre che si aprivano, da una parte verso il Giardino di Boboli, e dell’altra verso lo stupendo panorama della città, con i campanili, la Cupola del Duomo, le torri, così vicine che avevi l’impressione di toccarle con un dito, non avrebbe quasi avuto bisogno di tanta ricchezza al suo interno. Mi ricordo i vasti e interminabili corridoi, le sale ricchissime di decorazioni che si susseguivano una all’altra, le innumerevoli tele e pale, alle pareti di autori quali Tiziano, Raffaello, Rubens, ecc. Forse era troppo per un semplice ragazzotto che veniva dalla campagna, in quel di Fontebuona, abituato ad una vita campagnola, che si svolgeva fra il fosso, la Carza, e i suoi borri (nei quali noi andavamo spesso a tuffarci per sfuggire un po’ alla calura estiva), le colline, Piandalecchio, Ferraglia, San Michele, oppure le frazioncine vicine al paese che avevano i nomi di Saltalavacca, Bicchi, La Fora, Starniano. Fu osservando quelle tele, quegli splendidi volti di Madonne, di dame, ma anche di splendidi paesaggi che mi resi conto di quanto gli artisti del passato e le loro botteghe avessero raggiunto un grado di perfezione tale, che io penso non sarà più possibile raggiungere nel futuro, tanto meno oggi che viviamo in una società industrializzata, dove l’arte e l’artigianato non sono davvero incoraggiate. A Pitti allora c’erano quattro musei: la Galleria Palatina che occupava il primo piano del palazzo, insieme agli Appartamenti Monumentali, che sarebbero stati la residenza dei Medici, prima, e la Residenza del Re d’Italia, quando Firenze diventò la capitale d’Italia. Al piano superiore c’era la Galleria d’arte moderna, con i dipinti dei Macchiaioli, di Signorini, Cabianca, Lega, insieme alle sculture dei nostri maggiori artisti vissuti a cavallo fra Ottocento e Novecento. Fra tutti questi quadri me ne ricordo di uno, in particolare, però non mi ricordo l’autore, che sicuramente era della seconda metà dell’Ottocento. Il quadro rappresentava un campicello con dei cardi, nella stagione invernale, con una luce mattutina, che li illuminava di una bella luce radente, e questa metteva in mostra dei piccoli ghiaccioli che nella nottata si erano attaccati alla pianta. Questo quadro mi ricordava l’orticello di mio padre a Fontebuona, che quando arrivavamo al periodo invernale, i cardi, il cavolo nero e poche altre poche piante erano gli unici ortaggi che riuscivano a sopravvivere ai rigori dell’inverno. In questo quadro di Pitti, c’era dunque tutta la poesia, il ricordo, l’amore che mio padre aveva verso il suo orticello e le sue piantine. Ma torniamo a Pitti. Al Pianterreno invece il Palazzo ospitava il Museo degli Argenti, la cui denominazione era un po’ impropria poiché oltre gli argenti c’erano avori, pietre dure, cristalli di rocca, insomma un po’ tutte le suppellettili di lusso che erano appartenute ai Medici-Lorena. Oltre a questo, a pianterreno il palazzo occupava il Museo delle Carrozze, appartenute ai Medici. Mi ricordo queste belle carrozze decorate e rifinite con legni pregiatissimi e oro che facevano spicco in dei saloni non troppo consoni al prestigio di queste Cadillacs o Limousines d’altri tempi. E poi i depositi, stracolmi di opere, che io mi domandavo chi mai ce le avesse portate e da dove venisse tutta questa grazia di Dio. Seppi poi che, parte di queste opere provenivano anche dal Mugello, il Granduca infatti, come pure gli altri membri della famiglia Medici, erano grandi collezionisti, oltre ché dei grandi mecenati. Prima di allora le uniche opere d’arte che avevo visto erano una tavola di San Niccolò, una pittura attribuita a Neri di Bicci, che si trovava nella chiesina di Ferraglia, e un’altra raffigurante l’Angelo Michele, nell’altra chiesa di Fontebuona detta di San Michele alle Macchie della quale era curato Don Luigi Visani, un bravissimo sacerdote di origine palazzuolese che è stato in quella chiesa moltissimi anni coadiuvato dalla sua Perpetua che si chiamava Teresita. Questo bravo sacerdote ebbe il merito di farsi amare da tutti i parrocchiani per la sua bontà.Mi ricordo che a questo sacerdote gli feci da chierichetto per diversi anni. A questa fase adolescenziale seguirono gli studi nella città. I miei avevano scelto per me una carriera che non mi era proprio consona e cioè decisero di farmi frequentare la scuola alberghiera, la quale, dicevano, mi avrebbe subito aperto la strada ad un lavoro. Era una scuola professionale, e d’altronde, io, figlio di un operaio, non avrei potuto fare altrimenti. Ma questa carriera, io ragazzo di campagna, vissuto in un ambiente periferico e abbastanza povero, l’ho vista subito come qualcosa che non era adatta a me. Seguirono alcuni tirocinii in Italia e all’estero e poi il servizio militare. Al termine degli studi mi liberai dall’ambiente degli alberghi, che io sotto sotto detestavo, in quanto era un ambiente troppo ricercato, troppo sofisticato, sempre “in etichetta”, sempre vestiti con l’abito scuro....insomma era una cosa che non si addiceva a un ragazzo campagnolo, che aveva sempre vissuto in un microcosmo fatto di persone (sempre le stesse), del fosso, dell’orticello del padre, del campicello di calcio. Insomma rinunciai volentieri a quel tipo di vita che ti costringeva a servire e riverire i Nababbi di tutto il mondo. Conclusi gli studi ottenendo un ambito posto di lavoro all’Hotel Excelsior di Firenze, presso la Recption dove ho avuto modo di conoscere e dare la mano a personaggi illustri: uno di questi ad esempio era Indro Montanelli che quando era a Firenze soggiornava presso quell’albergo e inviavi i suoi articoli al Corriere della Sera dalla telescrivente dell’albergo. Ma altri personaggi famosi soggiornarono durante il periodo che io ero lì: il Presidente degli Stati Uniti, Scià, Imperatori, Re del petrolio, attori e cantanti famosi, fra i quali Mina, Rita Pavone, ecc. Non ebbi neppure il tempo di abituarmi che sbarcai nei musei fiorentini e qui in questi ambienti la vita era talmente diversa dal lusso degli alberghi. Tutto qui era molto antiquato e tutto si muoveva a dei ritmi davvero lenti, statali se volgiamo o conservatori. Infatti qui non c’era da fare altro se non quello di conservare il patrimonio artistico. Ben presto la mia indole, il mio carattere si ribellarono, non potevo accettare una vita così statica e accontentarmi solo di quella. Cominciai a viaggiare per il Mugello, a visitare tutte le sue chiesine, anche quelle più solitarie, cominciai a interessarmi del paesaggio che stava cambiando da rurale in urbanizzato, mi interessai soprattutto delle case coloniche, in particolar modo di quelle abbandonate che stavano per cadere e che di lì a qualche anno non ci sarebbe stata più memoria. Con la mia reflex, dotata di grandangolo e leleobbiettivi varii, riempii rotolini e rotolini di pellicola Ilford bianco e nero che stampavo e ingrandivo per mio conto. Mi piaceva interessarmi delle piccole chiesette rurali mugellane, poiché erano trascurate, nessuno allora ne parlava. Tutti preferivano parlare delle grandi chiese, dei grandi palazzi di Firenze e proprio per questo mi sembrò giusto che si parlasse anche delle nostre campagne in via di abbandono. Era facile parlare del Duomo, di Palazzo Strozzi, del Bargello, ecc., molto più difficile era invece parlare della Pieve di Montecuccoli, della chiesa di Ampinana, della chiesa di Spugnole, di Cornetole. Riuscii a dare alle stampe il mio primo libro, Le chiese del Mugello, che ricordo, uscì contemporaneamente con il libro di Barletti e Squilloni, intitolato Mugello. A quei tempi, il Mugello, bisogna dirlo, non interessava a nessuno o quasi. Dalle foto bianco nero passai alle diapositive a colori, queste mi davano più soddisfazione poiché il Mugello è bello anche per i suoi colori. Da allora la mia vita è stata una continua ricerca di paesaggi, di scorci suggestivi, di angoli di paese sconosciuti, di case coloniche, di chiesine, di campanili, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, sempre alla ricerca di qualche foto che “raccontasse” qualcosa. Ho collezionato ben 7000 diapositive, di cui la metà riguardano il Mugello e l’Alto Mugello. Questa è stata la mia passione che mi ha convolto e in un certo senso mi ha “travolto”. Ma l’ho fatto volentieri, in un tempo dove tutti si occupavano di altre cose ben più remunerative di questa, e quando nelle campagne mugellane tiravi fuori il cavalletto con la macchina fotografica, ti prendevano per scemo. E’ seguito poi il mio secondo libro “Folli e sapienti”, una raccolta di frasi, proverbi riflessioni ecc., e nella prefazione del quale io dico che lascio ai lettori il compito di  collocarmi fra i saggi o gli stolti.

Paolo Campidori
(Copyright P. Campidori)