“VECCE E VENA”, FISARMONICA E ALLEGRIA IN ALTO MUGELLO

Aneddoti e “imbrocchi” nell’Appennino Tosco Emiliano

Pur avendo origini tosco-romagnole, da parte dei genitori, era ormai dalla lontana infanzia che non frequentavo più quei posti. Ci volle un amico a tirarmi un po’ per i capelli e riportarmi in quei luoghi. Luciano, detto anche Caburaccia, per la sua origine, mi raccontava  spesso delle serate passate al ballo a Pietramala, alla Ca’, a Ca’ del Costa, a Piamaggio, a Castel dell’Alpi. In questi posti, sembrava almeno dai suoi racconti, la gente era molto ballerina, gli piaceva soprattutto ballare con la fisarmonica. Luciano, come tanti altri ragazzi che allora venivano su dal Mugello, per incontrare ragazze tosco-romagnolate, era ed è tuttora un buontempone e da buon “romagnolo” aveva sempre la battuta pronta. Sai, mi diceva con quella “s” strascicata: “non pensare che siano tutte giovanette, c’è anche un po’ dell’INPS”. Voleva dire che trovavi un buon numero di ballerine con una “trintèna” (trentina) d’anni per gamba. Invogliato dalle sue parole un giorno mi decisi anch’io a prendere la strada della Futa. Vi descrivo la prima impressione che ebbi entrando in una di queste sale da ballo, che se non mi sbaglio, la prima volta fu alla Ca’. L’atmosfera era allegra, con un vecchio chiamato “Gallinino” che suonava e cantava in un modo particolare le canzoni di un tempo. Entrando nella sala, riuscii a stento a contenere la mia sorpresa: c’erano delle coppie, alcune anche anziane, che saltavano e volteggiavano come dei capretti impazziti. Riuscii a stento a trattenere le risa, non  mi immaginavo qualcosa del genere. Pensavo ormai che quei balli fossero spariti e che anche la fisarmonica fosse un lontano ricordo. Ma la gente che si vedeva attorno, con i visi rubizzi, le donne montanare dai seni duri come le caciotte, dal vestire un po’ alla contadina, sembravano veramente allegri. Gli uomini, rumorosissimi, facevano il via vai dalla sala da ballo al banco della mescita dei vini. Mi ricordo ancora di un uomo sulla sessantina con il bicchiere in mano che diceva, in dialetto tosco-romagnolo: “Vedi io con quella lì ci ballo e poi ci filo, ma bisogna che stia attento: non posso oltrepassare un certo punto, perché se poi quella mi dice di si? Sarebbe un bel guaio, è troppo giovane per me, e poi io non sono più un giovanotto”. Come ho detto in sala suonava un certo Gallinino, che certi ragazzi che venivano dal Mugello avevano ribattezzato “Vecce e  vena”(si tratta di due legumi per l’alimentazione delle bestie: le vecce e l’avena), tanto per indicare un tipo di musica campestre, contadinesca. Questi ragazzi, di allora, mi ricordo alcuni venivano su da San Piero a Sieve, gli dicevano: “Gallinino, suonaci “vecci e vena”. Intendevano quella canzone romagnola “Romagna mia”. In questo pezzo Gallinino dava il meglio di sé. Suonando la fisarmonica ondeggiava a destra e a sinistra , piegava il capo all’indietro, chiudeva gli occhi e spalancava la bocca per far uscire quel “Romagna mia” con tutta la sua voce. Era a quel punto, che, in epoca di carnevale, questi ragazzi tiravano fuori dalle proprie tasche delle manciate di coriandoli e gli riempivano la bocca. Ma lui non smetteva mica! Sbuffava un po’ e ricominciava. In quelle serate invernali, io che venivo dai locali notturni della Riviera  Ligure, Diano Marina, Cervo oppure dalla Capannina della Riviera Adriatica, dove al ritmo di “Ti voglio cullare” di Fidenco, al “Sapore di sale” di Paoli oppure al suono della Musica dei Platters, si ballava il “lento” abbarbicati con le straniere “usa e getta”, in quelle serate montagnole, io avevo ritrovato un po’ della mia vita, un po’ delle mie origini e non  mi dispiaceva. Questa gente montanara mi sembrava più vera, più sincera. Alcune volte capitava di salire anche con la neve, specialmente quando ci si avvicinava al Natale. Mi ricordo che allora, in quelle sere, il sereno del cielo contrastava fortemente con il chiarore delle montagne innevate, che lasciavano intravedere nettamente il loro profilo. Avevi l’impressione di trovarti di fronte a uno dei tanti paesaggi notturni con il cielo stellato che trovi come sfondo ai presepi natalizi. In quei momenti, in quella solitudine interrotta  soltanto dalle lucine dei paesi vicini, ritrovavi te stesso e la gioia incontenibile di esistere. Ma in queste da ballo di montagna non trovavi solo, come diceva Luciano, dell’INPS o altri Enti mutualistici. Trovavi anche belle ragazze, alcune bellissime. Dietro una di queste filava un amico di San Piero. “Ormai quella è mia”, mi disse con tono molto soddisfatto, “le ho fatto una dichiarazione di mezz’ora”. Dopo neppure una settimana, la stessa se l’era accaparrata un’altra persona, provate a dire chi...? Dallo scherzo, ormai la cosa cominciava a piacerci: ci piaceva “sfarfallare” a Pietramala, alla Ca’, a Monghidoro, a Loiano, ecc. A Monghidoro, l’estate, ballavano in piazza, e alcune volte portavano anche dei complessi romagnoli importanti. Uno di questi, il cui cantante aveva fatto la carriera sulle grandi navi da turismo, cantava un repertorio di canzoni bellissimo: dalle americane Blue moon e altre classiche all’italianissima Chitarra vagabonda. L’unico inconveniente era la piazza, che essendo in pendenza, quando suonavano il valzer, le coppie, girando vorticosamente, scendevano la piazza veloci come un treno, però sbuffavano come un treno, quando dovevano risalire la piazza. Luciano, con quel suo accento romagnolo, sudato, dopo che aveva fatto un valzer, su e giù per la piazza, mi diceva che per la discesa andava bene, ma per risalire, ci voleva un buon motore, altrimenti....Un altro aneddoto, che mi ricordo, è quello della “merlottaccia”. Sempre uno di questi ragazzi che dal Mugello salivano sulla montagna a “far danno” aveva trovato una ragazzina dalla gambe esili esili, che, per questa sua caratteristica, aveva ribattezzato la “merlottaccia”, a insaputa della ragazza però, e tutte le volte che  nominava la “merlottaccia”, guardava noi e le batteva una mano sulle gambe. Un altro, sempre mugellano, mi disse che la sua ragazza, se fosse andato in casa, cioè se avesse fatto “entratura”, come si diceva, la famiglia di lei, per far festa, avrebbe ammazzato tacchini, polli, anatre, piccioni, insomma, costui era un po’ “ballone”,  in casa di lei avrebbero fatto “una strage”. Ben presto anche la gente del posto, in modo particolare le mamme, si accorsero che a noi piaceva svolazzare di fiore in fiore, come fanno le api quando succhiano il nettare. Ma da queste parti questo atteggiamento non era visto tanto di buon occhio, tanto più che quassù il “toscano” era visto con un po’ di diffidenza. Non era giusto rovinare così delle ragazze da marito! Ma il nostro rapporto, al di là delle apparenze, è stato sempre dei migliori e ancora oggi, che ci ritroviamo con la barba bianca, quando andiamo in quei posti, ritroviamo i vecchi amici e le amiche, che sono rimaste veramente tali, e che rispondono ai nomi di Chiara, Angela, Ernestina, ecc.

Paolo Campidori                     

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