LA VITA, LA REGOLA NEI CONVENTI BENEDETTINI DEL MUGELLO

Alcune riflessioni sulla Regola di San Benedetto

“San Benedetto la rondine sotto il tetto”, dice un saggio proverbio. Apro il Martirologio Romano di Papa Gregorio XIII, del 1636, e alla data 21 marzo trovo scritto: “A monte Cassino è il natale di s. Benedetto Abate, il quale ristorò la monastica disciplina dell’Occidente, quasi estinta; e l’ampliò meravigliosamente; la cui vita per virtù, e miracoli gloriosa fù scritta da S. Gregorio Papa”. Prendo allora il libro di San Gregorio Magno e comincio a sfogliare le pagine una dopo l’altra. Così per caso, la mia attenzione si ferma al cap. I della Regola di San Benedetto, nel punto in cui il Santo ci parla delle “Diverse specie di monaci”. Senza stare a descrivere minuziosamente il capitolo, San Benedetto distingue i monaci in 4 specie. Per primo vengono i cenobiti, cioè i monaci che appartengono anche alla sua regola, e questi vivono in un monastero “militando sotto una regola e un abate”. Questi sono i monaci che gli rimangono più simpatici. La seconda specie è quella degli anacoreti  o eremiti. Per intendersi quei monaci  che vivono da soli in celle o grotte, come aveva fatto, del resto, San Benedetto in gioventù, eremita nel Sacro Speco di Subiaco. Ma il Santo consiglia questa specie di vita non agli iniziati, ma a coloro che hanno “lunga vita monastica....e hanno ormai imparato a lottare col demonio”. Poi ci sono altre specie di monaci che a San Benedetto non vanno sicuramente a genio. Una è quella dei sarabaiti ai quali San Benedetto non lesina nei loro confronti parole di disappunto: “tristissima specie di monaci” e poi ancora “rammolliti come piombo” poiché non provati “dall’effettiva pratica di alcuna regola”. Viene infine una specie di monaci, che a San Benedetto, come si direbbe oggi sta proprio....sullo stomaco.  Si tratta dei monaci girovaghi. “Della loro miseria spirituale – dice San Benedetto – è meglio tacere che parlare”. E poi, rincara la dose: “sempre vaganti e mai stabili, asserviti alle loro voglie e ai piaceri della gola”. Sfoglio ancora qualche pagina della Regola e il mio sguardo si fissa sul Cap. V: “L’obbedienza”. Sentiamo cosa dice San Benedetto: “Il sommo grado dell’umiltà è l’obbedienza” e fino a qui niente di trascendentale. Anche nella vita non monastica molti praticano l’obbedienza: alle leggi, al superiore gerarchico, ai propri genitori, ecc. Ma per San Benedetto praticare la virtù dell’obbedienza non è sufficiente, e come si dice: “spacca il capello in quattro”. L’obbedienza deve essere “senza indugio” (obedientia sine mora). Ma non è ancora finita. San Benedetto precisa altre cose: essa deve essere eseguita “con piede prontissimo” e “abbandonata la propria volontà, alzando all’istante le mani dal lavoro e lasciando incompiuto ciò che facevano, seguono coi fatti all’obbedienza, la voce di chi comanda”. E allora vediamo chi comanda nel monastero. Parliamo dell’Abate. San Benedetto ci dice a tale proposito: “Sappiamo per fede che (l’Abate) tiene nel monastero il luogo di Cristo”. Quindi i  monaci obbedendo all’abate è come se obbedissero a Cristo in persona. Ma l’Abate continua il Santo nel Prologo: “...è anche un padre che vuol bene” ai propri figli. L’Abate è colui che dovrà rendere ragione a Dio dell’insegnamento e dell’obbedienza dei discepoli. Ma San Benedetto , nella Regola, non fa dell’obbedienza il solo cavallo di battaglia. Egli non ama i monaci chiaccheroni e sfaccendati, e allora impone il silenzio come regola: “Parlare e insegnare appartiene al maestro, tacere e ascoltare spetta al discepolo”. Poi ancora: “Quanto a volgarità, parole oziose e provocanti al riso le condanniamo in ogni luogo...”. Il monaco, secondo San Benedetto, deve essere anche e soprattutto umile, e stabilisce una vera e propria scala di umiltà, che il monaco deve salire, con fatica, gradino per gradino. Il primo grado dell’umiltà è che il monaco: “abbia il timore di Dio sempre innanzi agli occhi”. Il secondo é che: “il monaco non ami la propria volontà”. Terzo: “il monaco si sottometta al suo superiore”. Quarto: “il monaco abbracci con animo quieto la pazienza e non si stanchi di sopportare”. Quinto: “Sveli al suo Abate i cattivi pensieri.....e le mancanze occulte commesse”. Sesto: “il monaco sia contento di qualunque cosa”. Settimo: “Il monaco non si riconosca solo con la lingua, inferiore, e peggiore di tutti”. Ottavo: “Il monaco non faccia nulla che non sia conforme all’usanza del Monastero”. Nono: “Il monaco non parli finché non è interrogato”. Decimo: “Il monaco non sia facile e pronto al riso”. Undicesimo: “Il monaco parli dolcemente, senza riso e con umiltà”.  Dodicesimo: “il monaco mostri sempre umiltà a chi lo vede.....sia sempre col capo chino e gli occhi fissi a terra”. Saliti questi gradini, dice San Benedetto, il monaco arriva senz’altro a quel perfetto amori di Dio che scaccia il timore. Non c’è che dire, San Benedetto  (insieme a San Francesco) è uno dei santi più simpatici, che sa usare con i propri monaci lo zuccherino ma anche la “frusta”, quando è necessario. In Mugello, Alto Mugello e Val di Sieve, molte sono state le abbazie benedettine a partire dall’alto medioevo fino ad arrivare ai giorni nostri. Tante di queste hanno subito alterne vicende e solo poche sono arrivate fino ai nostri giorni. Parlo dell’Abbazia di San Godenzo, ai piedi del Muraglione, celebre anche per aver accolto Dante Alighieri, durante la sua fuga in Romagna; e quello di Rosano, presso Pontassieve. Quest’ultimo è un monastero di clausura femminile, ed è un vero fiore all’occhiello delle nostre realtà conventuali. La vita comunitaria, le ore di preghiera e di lavoro, sono scandite secondo il principio generale della Regola Benedettina: ORA ET LABORA (Prega e lavora). E’ un bellissimo cenobio, ricco di opere d’arte, ma soprattutto bello per le numerose vocazioni e per le ordinazioni che vi si tengono ogni anno, specialmente nella festa di San Benedetto. In questo Convento, spesso, alti prelati (Ratzinger e altri) vi si recano per celebrare la Santa Messa che avviene con il rito pre-conciliare, in lingua latina e con l’accompagnamento del Canto Gregoriano. La prima volta che mi sono recato qui è stato in occasione di una Professione solenne e Consacrazione di una monaca. Vi debbo dire che l’emozione è stata grandissima. Presiedeva la cerimonia il Vescovo di Fiesole, al quale il monastero appartiene come giurisdizione. L’atmosfera era gioiosissima e di grande festa. Anche la monaca che stava per prendere i voti, sprizzava allegria da tutti i pori. Alla domanda del Vescovo: “Filia dilectissima, iam per baptismum peccato mortua ac Domino sacrata, vis, perpetuae professionis titulo, arctius Deo coniungi?” (Figlia carissima, già morta al peccato, e consacrata al Signore mediante il Battesimo, vuoi unirti più intimamente a Lui per mezzo di una perpetua consacrazione?). Alla risposta “Volo” (Si, lo voglio) un forte senso di commozione mi pervase. Stavo assistendo ad una delle cerimonie più antiche: per un attimo ero tornato con la mente al tempo dei Conti Guidi, ai quali il monastero “apparteneva”, e spesso e volentieri scendevano, in grande pompa” dai loro castelli di Romena e di Poppi per andare a visitare le loro “sorores pauperes” (sorelle povere), ma anche per assistere ai riti di Benedizione di un’Abbadessa o di una Professione Solenne. Il Canto Gregoriano delle monache di clausura di Rosano, è meraviglioso, angelico per certi aspetti; un canto che ti riempie di gioia, ti sembra di elevarti ad altezze inimmaginabili. E’ bello stare qui la domenica con le suore di Rosano che io chiamo affettuosamente “le mie suorine”. Tutto questo lo dobbiamo a quel Santo simpatico che era San Benedetto.

Paolo Campidori
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